16 giugno 2012 / 7 luglio 2012
Limiti inchiusi arte contemporanea, via Muricchio 1 - Campobasso
a cura di Tommaso Evangelista
Vincenzo Merola presenta la serie di lavori dal titolo Travestimenti. Surrogato d’identità, il travestimento è il comodo espediente attraverso cui l’uomo può
rendersi riconoscibile o irriconoscibile nell’affrontare la vita quotidiana. Quando si traveste per farsi riconoscere, l’individuo si cuce addosso un’identità
semplice e stereotipata grazie alla quale può mimetizzarsi nel vuoto che lo circonda e accettare il proprio vuoto interiore. Quando si traveste per non farsi
riconoscere, l’individuo cerca di riappropriarsi di un’identità complessa che lo distingua dal vuoto dilagante, isolandosi e esponendosi al pubblico ludibrio. Le
combinazioni di individui-contenuto e di travestimenti-forme sono infinite e mutevoli. Da ogni incontro, irripetibile, nasce l’amalgama di universale e particolare
che è alla base dell’essere surmoderno.
Frammenti in controluce
Questa riduzione non deve essere
considerata
come un espediente ed una insufficienza, ma al
contrario:
la pittura non è già priva della terza
dimensione,
ma la rifiuta intenzionalmente per
sostituire
il reale semplicemente spaziale
con il principio più alto e più ricco del
colore.
(Hegel, Estetica)
Partendo da un’impressione (reale o letteraria) Vincenzo Merola configura strutture geometriche pure, le quali altro non sono che scritture personali nate dal
confronto-scontro tra sensibilità e significato. Il punto di partenza è l’individuazione di un sistema linguistico stabile e personale da adoperare come canone e
col quale far emergere l’essenza dei personaggi. Il passaggio dalla terza dimensione alla bidimensionalità pone le figure (il pittore, il costruttore, il giudice,
etc.) sul piano immediato della percezione, comprensibili ed ermetiche allo stesso tempo ma sempre chiare nella loro singolare narratività. Sono figure in
controluce in quanto ridotte all’essenza della parola e dei mezzi espressivi del segno-idea, estreme semplificazioni della struttura che permettono una visione
ravvicinata e scientifica (al microscopio), come le ultime tele di Mondrian consentivano finali vedute urbane catturate dal ritmo del boogie-woogie e dalle selve
metalliche dei grattacieli. Questa nuova figuratività si avvale dei limiti della linea retta col contorno che si amplifica diventando spazio di divisione e di
riflessione poiché, nell’assenza di gesto materico, la configurazione dell’opera diventa metafora della lettura, meditata e intima. L’assenza di conformazioni
curvilinee, infatti, suggerisce come non sia l’espressività la chiave di ricerca quanto il rigore alla ricerca dell’essenza. Il colore, sempre puro e mai legato al
tono (con qualche concessione all’op art), concorre poi a dare verosimiglianza alla rappresentazione, anzi, conferisce il “carattere” alle linee di per sé fredde e
statiche: attraverso questa concessione al sentimento l’artista è capace di conferire non solo forma ma anche sostanza alle sue figure immateriali e invisibili in
quanto private della fisionomia. Travestimenti, in questo senso, è il termine adatto per descrivere l’incontro che avviene tra contenuto e idea per cui la parola è
sempre in continuità con lo spazio raffigurato e la pittura diventa maschera. L’immagine nasce da un lento processo di elaborazione dell’artista, che ricompone
frammenti poetici e impressioni letterarie e sulla tela agisce come un matematico, che attraverso calcoli e formule cerca di dimostrare il suo assunto. Ogni
personaggio richiede allora una “formula” diversa e vive di questa tensione tra residuo di forma e aniconicità. Ciò che rimane, allora, non è lo scarto ma
l’essenza, le luci e le ombre di una personalità svelata e messa a nudo, sublime in quanto soggetto puro ma terribile in quanto feticcio post-moderno. Tra
linguaggio e realtà, allora, si apre un abisso che l’artista cerca di ricomporre attraverso la ricerca di un canone di rappresentazione che adopera tutte le
potenzialità della linea e del colore per narrare l’uomo in tutti i suoi “ruoli”. E proprio lo scontro tra figura e icona, identità e ruolo, tra singolo individuo
(di solito un personaggio reale o immaginario tratto dalla letteratura) e la sua funzione nella collettività, fa slittare questi lavori anche su un piano più
propriamente politico. All’estremo grado di astrazione non corrisponde un nascondimento nelle forme, la rappresentazione si fa analitica e per questo quasi
oggettiva, ma mai completamente distante. Ciò che osserviamo non sono minimali frammenti privi di centro ma, come scrive l’artista, “surrogati d’identità”: al
contrario di una linea visiva minuziosa che sembrerebbe prevalere si riscopre infatti l’analogia con tutta la sua carica convenzionale-simbolica. È un ritorno
quindi, riprendendo giustamente la triplice ripartizione di Panofsky da Studi di iconologia, al soggetto primario, o naturale, che si coglie identificando le pure
forme, vale a dire certe configurazioni di linee e di colori, come rappresentazioni di oggetti naturali. L’uomo, all’ultimo stadio di analisi, diventa un motivo
artistico-geometrico: “Da ogni incontro, irripetibile, nasce l’amalgama di universale e particolare che è alla base dell’essere surmoderno”. Questo riassunto
dell’immagine, della figura “messa a schema”, ha come conseguenza un’immediata leggibilità della forma che vive tra passato e presente ma che risulta immobile
poiché il luogo di questo scontro (cfr. l’immagine dialettica di Benjamin) è soprattutto il linguaggio. Le figure che emergono sono luoghi della storia, del ciò
che è stato, ma in quanto sintesi preferiscono l’evidenza allo svelamento; più si accostano allora alla riproducibilità, più permettono quella possibilità
comunicativa essenziale che la moderna perdita dell’originalità e dell’aura ha messo in crisi.
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